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Quali sono oggi gli studi epidemiologici di maggior interesse sui possibili effetti dei campi elettromagnetici sull’uomo?
Questa è una domanda difficile. Per rispondere in modo pertinente vorrei prima contestualizzare l’oggi e specificare la prospettiva in base alla quale definire il grado d’interesse.
“Oggi” significa 35 anni dopo la pubblicazione (nel 1979) dello studio di Wertheimer e Leeper che suggeriva un incremento del rischio di leucemia infantile associato all’esposizione a campi magnetici a frequenza estremamente bassa (ELF) e 18 anni dopo l’avvio del Progetto Internazionale Campi Elettromagnetici da parte dell’OMS. Nel ventennio conclusivo del XX secolo la ricerca sperimentale ed epidemiologica si è concentrata sui possibili effetti a lungo termine dell’esposizione a campi ELF, con un focus particolare, ma non esclusivo, sull’eventuale cancerogenicità dell’esposizione a frequenze di rete (50/60 Hz). Le evidenze prodotte da questa cospicua attività scientifica sono state esaminate, sintetizzate e valutate nell’ambito del progetto OMS. Poi l’attenzione si è spostata sui campi a radiofrequenza (RF), focalizzandosi principalmente sui possibili rischi da telefoni cellulari. L’attività di monitoraggio dell’evidenza scientifica in questo ambito da parte dell’OMS è a metà strada: la IARC ha pubblicato la monografia dedicata alla valutazione della potenziale cancerogenicità dei campi RF nel 2013 e l’insieme dei possibili rischi per la salute da esposizione a sorgenti di RF è corso di analisi da parte del gruppo di lavoro incaricato della stesura di un nuovo volume della serie Environmental Health Criteria che sarà pubblicato nel 2016.
Naturalmente non possiamo esaminare in questo contesto il quadro delle conoscenze. Non sarei neppure in grado di farlo in modo esaustivo, perché sono necessarie competenze interdisciplinari. D’altra parte, nel maggio scorso è stato presentato ad Atene l’ultimo rapporto del panel europeo SCENIHR; rimando a questo documento per una valutazione aggiornata degli effetti sulla salute dell’esposizione a campi elettromagnetici statici, ELF, RF e a frequenza intermedia (IF).
Una considerazione che mi sembra opportuno fare è questa: nonostante l’impegno di una larga comunità scientifica e l’investimento di ingenti risorse, a tutt’oggi non è stato accertato alcun meccanismo biologico per eventuali danni alla salute conseguenti ad esposizioni di lunga durata a livelli di campi elettrici e magnetici (statici o variabili nel tempo, di frequenza compresa tra 0 e 300 GHz) inferiori agli standard internazionali finalizzati alla prevenzione degli effetti noti a soglia.
Per tornare alla tua domanda, l’altro elemento chiave è l’invito a descrivere gli studi epidemiologici “di maggior interesse” oggi. Nel libro “Epidemiology of Electromagnetic Fields” pubblicato nel giugno 2014, Mireille Toledano e Rachel Smith, in apertura del capitolo dedicato al futuro dell’epidemiologia dei campi elettromagnetici, si pongono un quesito analogo: “Without established mechanisms to direct efforts to health endpoints of most relevance for investigation, what is driving continuing research in EMF epidemiology?”. L’unica certezza in questo ambito di ricerca, sostengono le due epidemiologhe inglesi, è la notevole preoccupazione diffusa in larghi strati dell’opinione pubblica sui possibili rischi per la salute dei campi elettromagnetici. A supporto di questa affermazione, citano i risultati di un’indagine “Eurobarometro” del 2010, dalla quale risulta che il 46% dei cittadini europei è preoccupato per i potenziali dei rischi per la salute da campi elettromagnetici (CEM); inoltre, il 60% degli intervistati è convinto che le linee elettriche ad alto voltaggio, le antenne radio-base per la telefonia cellulare ed i telefoni cellulari influenzino in qualche misura la loro salute, mentre il 35%, il 33% ed il 26%, rispettivamente, ritiene che queste sorgenti di campi elettromagnetici abbiano un grande impatto sul loro stato di salute. Per inciso, la preoccupazione per i possibili effetti nocivi dell’esposizione a CEM è molto più diffusa in Italia che nel resto d’Europa: l’81% dei nostri concittadini nel campione dichiarava di essere “molto o abbastanza preoccupato” e le percentuali di risposte a favore di un grande impatto sulla salute delle diverse sorgenti considerate tra gli italiani raggiungevano il 78% per le linee elettriche ad alta tensione, il 79% per le antenne radio-base e il 69% per i telefoni cellulari!
Toledano e Smith si chiedono anche se sia ragionevole (anzi, usano l’aggettivo “legittimo”) che la ricerca in epidemiologia ambientale sia guidata da questa preoccupazione sociale e rispondono che si, lo è. Considerati il ritmo corrente nello sviluppo tecnologico e la crisi economica perdurante (con il suo impatto negativo sulla ricerca biomedica finalizzata alla prevenzione), ritengo si tratti di una domanda rilevante e di una risposta impegnativa.
Comunque, concordo con Mireille Toledano e Rachel Smith che la soluzione ottimale per ridurre gli attuali margini d’incertezza consista nell’investire in studi prospettici di grandi dimensioni, che abbiano la potenzialità di superare i limiti degli studi epidemiologici condotti finora, in particolare i limiti e le distorsioni cui sono particolarmente suscettibili gli studi caso-controllo (valutazione dell’associazione tra esposizione e una singola malattia, errori differenziali nella stima retrospettiva dell’esposizione e bias di selezione). Un approccio di questo tipo si trova nello studio di coorte Cosmos, uno studio multicentrico attualmente in corso in Inghilterra, Svezia, Finlandia, Danimarca, Olanda e Francia ( http://www.ukcosmos.org/). Nel tempo, Cosmos permetterà di valutare il rischio di molte patologie (non solo diversi tipi di tumore, ma anche malattie neurodegenerative, sintomi aspecifici, etc.) in relazione alla durata e all’intensità d’uso dei telefoni cellulari; quest’ultima verrà valutata combinando informazioni fornite dai soggetti in studio e dati di traffico, prima e indipendentemente dall’insorgenza degli eventi sanitari d’interesse; sarà inoltre possibile valutare l’esposizione ad altre sorgenti di CEM a bassa ed alta frequenza e studiare l’effetto di modifiche nei profili di esposizione a CEM nel tempo. Mi sembra di capire che, al momento, Cosmos attraversi una fase critica di carenza di fondi; spero che la situazione si risolva presto, perché sarebbe imperdonabile vanificare l’impegno profuso nel disegno e nella raccolta dati avviata da qualche anno e rinunciare ad una così preziosa fonte di evidenze.
L’età di primo utilizzo dei telefonini si abbassa costantemente. Cosa dicono gli studi già effettuati circa i possibili rischi per i bambini e gli adolescenti? Quali sono gli studi in corso a questo proposito?
Benché sia molto diffusa la preoccupazione che bambini e adolescenti possano essere più suscettibili degli adulti ad eventuali effetti dannosi dell’esposizione a RF, non ci sono dati empirici a supporto di questa ipotesi. Le autorità sanitarie di alcuni paesi hanno raccomandato che i bambini evitino o limitino l’uso dei telefoni cellulari, mentre in altri paesi non sono state formulate raccomandazioni di questo tipo. I suggerimenti precauzionali non sono basati su evidenze scientifiche. Tuttavia, il numero di studi sugli effetti dell’esposizione a RF nei bambini è ancora limitato.
Attualmente sono disponibili i risultati di una sola indagine epidemiologica sul rischio di tumori cerebrali infantili in relazione all’uso del cellulare (lo studio caso-controllo multicentrico europeo Cefalo), peraltro piuttosto rassicuranti, specialmente se considerati nel quadro della sostanziale stabilità dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali infantili nei paesi nordici tra il 1990 ed il 2009.
Un secondo studio caso-controllo su questo argomento, Mobi-kids, è in corso in 14 paesi del mondo e i suoi risultati saranno pubblicati tra il 2015 e il 2016 ( http://www.crealradiation.com/index.php/mobi-kids-home). Considerate la diffusione della telefonia mobile tra bambini e adolescenti e la scarsità di evidenze epidemiologiche, ulteriori indagini erano senz’altro necessarie. Purtroppo, Mobi-kids condividerà i limiti metodologici ed i conseguenti problemi interpretativi dei precedenti studi caso-controllo su telefoni cellulari e tumori cerebrali in adulti e bambini (suscettibilità a recall bias e bias di partecipazione). Forse, sul tema in questione, sarebbe stato più opportuno seguire le priorità di ricerca suggerite nel 2010 dall’OMS nella sua agenda per i campi a radiofrequenza (coorti prospettiche di bambini e adolescenti sull’uso del cellulare ed il rischio di diverse patologie, inclusi i tumori).
Per quanto riguarda il rischio di tumori infantili in relazione all’esposizione da sorgenti fisse di RF, negli ultimi anni sono stati pubblicati i risultati di quattro studi importanti, di grandi dimensioni e con un’accurata valutazione dell’esposizione basata su modelli di predizione. Tre di questi studi hanno esaminato l’incidenza di leucemia infantile tra i bambini residenti in prossimità di impianti di trasmissione radio-TV, in Corea del Sud, Germania e Svizzera (quest’ultima indagine ha esaminato anche il rischio di altri tumori infantili). Un quarto studio, inglese, era incentrato sul rischio di neoplasie infantili precoci (0-4 anni) in relazione all’esposizione materna in gravidanza a RF da antenne radio base. In nessuno di questi studi è stata osservata alcuna associazione tra leucemia o altri tumori e livello stimato di esposizione. Per questa ragione, il rapporto più recente del panel SCENIHR ritiene che l’insieme dell’evidenza fornita dagli studi epidemiologi deponga contro l’ipotesi di un rischio cancerogeno da stazioni radio-base ed antenne di trasmissione radio-TV.
Sono anche stati realizzati studi epidemiologici, prevalentemente di tipo trasversale (indagini nelle quali l’esposizione e gli effetti sanitari vengono rilevati nello stesso momento), sul benessere generale, effetti cognitivi e problemi comportamentali da esposizione a RF nei bambini, come pure alcuni studi di coorte prevalentemente incentrati sui rischi eventualmente connessi all’uso del cellulare da parte della mamma durante la gravidanza. Questi studi hanno prodotto risultati eterogenei e di difficile interpretazione a causa di importanti limiti metodologici, soprattutto la loro suscettibilità a bias di recall, causalità inversa, confondimento e bias di selezione.
Ci sono stati anche importanti progressi nello studio del rapporto tra benessere ed esposizione a RF da diverse sorgenti in bambini e adolescenti, legati all’uso di indicatori di esposizione basati su misure di RF effettuate con esposimetri personali. Mi riferisco a due indagini in particolare, condotte in Germania (MobilEe) e in Svizzera (Qualifex): in nessuno di questi studi si sono osservate associazioni coerenti tra esposizione misurata e sintomi o altri disturbi fisici, acuti o cronici. Secondo la più recente opinione SCENIHR, questi studi forniscono un moderato livello di evidenza a supporto dell’assenza di effetti associati all’esposizione prolungata (nell’ordine di giorni o mesi) a campi RF.
Riguardo alla questione ancora aperta delle possibili connessioni tra esposizione ai campi ELF ed insorgenza delle leucemie infantili sono stati fatti progressi? Sono in atto ricerche in grado di dare risposte più precise?
I campi magnetici ELF sono stati classificati dalla IARC tra gli agenti possibilmente cancerogeni per l’uomo (gruppo 2B), sulla base di un’evidenza limitata di cancerogenicità per l’uomo e inadeguata evidenza sperimentale. La categoria limitata assegnata all’evidenza sull’uomo poggia (allora come oggi) esclusivamente sull’associazione, coerente ma non necessariamente causale, tra esposizione a campi magnetici a 50/60 Hz al di sopra di circa 0.3-0.4 μT e incidenza di leucemia infantile, osservata in due analisi combinate (parzialmente sovrapposte) di una dozzina di studi epidemiologici pubblicati entro il 2000. Questo giudizio è stato confermato dall’OMS nel 2007. Un’analisi pooled più di recente, incentrata su sette studi successivi, ha sostanzialmente riprodotto le precedenti osservazioni. Sfortunatamente, i nuovi studi sono affetti dagli stessi limiti metodologici che caratterizzavano le indagini precedenti. Pertanto, in mancanza di supporto sperimentale e plausibili meccanismi biologici, distorsioni e confondimento o un insieme di questi fattori rimangono verosimili spiegazioni alternative, non causali, del dato epidemiologico.
Bisogna anche aggiungere che l’evidenza epidemiologica riguardo ad un’associazione tra campi magnetici ELF e tumori cerebrali infantili, come pure con le neoplasie emolinfopoietiche e cerebrali negli adulti esposti per ragioni professionali, è inconsistente, mentre c’è una robusta evidenza contraria ad una relazione tra incidenza di tumore del seno e malattie cardiovascolari ed esposizione a campi ELF.
Per risolvere le incertezze interpretative relative all’associazione ELF-leucemia infantile sono stati suggeriti due percorsi paralleli per la ricerca sperimentale e per quella epidemiologica. In ambito sperimentale, l’OMS nel 2007 raccomandava con alta priorità lo sviluppo di topi transgenici come modelli sperimentali di leucemia infantile. Studi in linea con tale raccomandazione sono in corso, ad esempio, nell’ambito del progetto Arimmora ( http://arimmora-fp7.eu). In ambito epidemiologico, è stato suggerito che solo nuovi tipi di studi, meno suscettibili a distorsioni dei precedenti e con un maggior numero di soggetti nelle categorie di esposizione più elevate (≥0.3-0.4 μT), oppure incentrati sulla valutazione di interazioni gene-ambiente, sarebbero in grado di far progredire lo stato delle conoscenze. TransExpo, ad esempio, è uno studio epidemiologico di cui si sta valutando la fattibilità a livello internazionale, finalizzato a studiare l’incidenza di leucemia infantile in coorti di bambini residenti in edifici che ospitano trasformatori elettrici; il disegno prospettico e l’accertamento dell’esposizione basato sulla distanza relativa tra appartamenti e cabine di trasformazione, senza necessità di contattare i soggetti in studio, garantirebbero l’assenza di bias di partecipazione, mentre la presenza di bambini residenti in appartamenti adiacenti a trasformatori aumenterebbe la numerosità nelle categorie più elevate di induzione magnetica indoor. Anche l’Italia partecipa allo studio di fattibilità di TransExpo: lo studio pilota locale, orientato a valutare mediante misure se la classificazione a priori dell’esposizione basata sulla distanza relativa tra appartamenti e trasformatori abbia sufficiente sensibilità e specificità per essere utilizzata nel futuro studio epidemiologico, si è concluso positivamente, in accordo con i risultati di analoghe indagini condotte in altri paesi. Il problema maggiore che TransExpo deve affrontare è quello delle dimensioni; infatti, data la rarità sia della leucemia infantile, sia dell’esposizione d’interesse, il numero di paesi da coinvolgere è enorme, quasi proibitivo.
Nell’insieme, dunque, non sono stati ancora fatti grandi progressi. Anzi, in ambito epidemiologico, negli ultimi anni c’è stata una certa tendenza a tornare a valutazioni dell’esposizione basate sulla distanza dalle sorgenti invece che su misure.
In Francia, ad esempio, nel contesto dello studio Geocap, è stato osservato un lieve e non statisticamente significativo incremento del rischio di leucemia infantile (OR 1.7; IC 95% 0.9–3.6) tra i residenti entro 50 m da linee aeree ad alto voltaggio. Altri studi analoghi, peraltro, hanno prodotto risultati contrari all’evidenza sinora accumulata. In Danimarca non è stato evidenziato alcun incremento del rischio di leucemia tra i bambini residenti a distanze inferiori a 200 m, né tra quelli residenti a distanze comprese tra 200–599 m, da linee elettriche a 132–400 kV. Ancora più interessanti mi sembrano i risultati ottenuti in Gran Bretagna. Qui è stato effettuato uno studio caso-controllo su 53515 bambini ai quali era stato diagnosticato un tumore tra il 1962 ed il 2008 (tra i quali 16630 casi di leucemia infantile) e 66204 controlli appaiati per data di nascita; come indicatore di esposizione è stata calcolata la distanza della residenza della mamma alla nascita del bambino da linee elettriche a 132, 275 e 400 kV. Gli stessi autori, in uno studio precedente incentrato sui casi di tumore infantile diagnosticati nel periodo 1962–95, avevano osservato un incremento del rischio di leucemia tra i residenti alla nascita entro 600 m dagli elettrodotti; nel nuovo studio, esteso ai casi diagnosticati nei 13 anni successi, si evidenza una tendenza per l’eccesso di rischio di leucemia tra i nati in abitazioni situate a distanze ≤600 m dalle linee elettriche a diminuire nel tempo e a scomparire nel periodo 1990-2008. Gli autori ritengono molto improbabile che un eccesso di rischio che diminuisce nel tempo derivi da un qualche effetto fisico delle linee elettriche e che un andamento temporale del genere sia più verosimilmente ascrivibile ad un cambiamento nelle caratteristiche della popolazione residente in prossimità degli elettrodotti.
Come si riflette sulla validità dei risultati degli studi epidemiologici già conclusi la continua evoluzione delle modalità di utilizzo dei terminali e dei dispositivi in genere?
Per rispondere in modo pertinente devo prima cercare di sintetizzare lo stato attuale delle conoscenze riguardo ai rischi per la salute, in particolare possibili effetti cancerogeni, eventualmente associati all’uso dei telefoni cellulari. Negli ultimi 15 anni sono stati pubblicati i risultati di moltissimi studi sull’argomento: due studi di coorte e una trentina di studi caso-controllo che hanno stimato i rischi di specifiche neoplasie intracraniche - glioma, meningioma o neurinoma del nervo acustico - tra utilizzatori adulti di telefoni cellulari. Inoltre, nel contesto di alcuni di questi studi (in particolare, nello studio internazionale Interphone), sono stati effettuati studi collaterali finalizzati a valutare la presenza e la portata di eventuali distorsioni (bias di partecipazione ed errori casuali, sistematici o differenziali nella stima dell’esposizione). Queste indagini parallele sono state preziose per interpretare correttamente i risultati della ricerca. Con poche eccezioni, le evidenze disponibili sono per lo più negative e, considerate congiuntamente ai risultati delle indagini metodologiche, non supportano l’ipotesi di un’associazione tra uso del cellulare e tumori cerebrali. Inoltre, studi di simulazione effettuati in nord-Europa e negli USA hanno dimostrato che gli incrementi di rischio legati all’uso del cellulare osservati in una serie consecutiva di studi effettuati da Hardell e collaboratori in Svezia non sono compatibili con l’andamento temporale dei tumori cerebrali maligni, essenzialmente stabile, registrato negli ultimi 20 anni nella maggior parte dei paesi industrializzati. Anche l’evidenza sperimentale disponibile depone fortemente contro l’ipotesi che l’esposizione alle RF utilizzate nella telefonia mobile abbia un ruolo nell’induzione o nella promozione della cancerogenesi.
Ora, considerato che l’evoluzione dei sistemi di telefonia mobile - inizialmente analogici e poi digitali di seconda e terza generazione (GSM e UMTS) - è stata caratterizzata da una progressiva diminuzione del livello di esposizione dell’utente nel corso di chiamate vocali, credo che l’insieme delle evidenze disponibili al momento,derivante dall’esperienza d’uso tra la fine degli anni ’80 e la fine del 2000, sia a maggior ragione valida anche per gli attuali utilizzatori. Anche le tendenze attuali nelle modalità d’uso dei telefoni cellulari, legate all’introduzione sul mercato degli smart-phones e al loro utilizzo in misura crescente per scambio di dati in vari formati, sembrano puntare in direzione di una diminuzione dell’intensità di esposizione locale a livello dell’orecchio e dei tessuti circostanti. Per quanto riguarda le variazioni nel tempo dell’intensità d’uso per chiamate vocali, i risultati di uno studio pilota condotto nell’ambito del progetto Cosmos, basato su un gruppo di 346 soggetti con dati di traffico registrati sul triennio 2007-09, indicano una lieve ma costante tendenza all’aumento sia del numero di chiamate (in media da 70 a 80 chiamate al mese), sia del tempo d’uso (da 298 a 342 minuti al mese). Pertanto, da questo punto di vista, è molto importante continuare la sorveglianza epidemiologica attraverso il monitoraggio dei trend d’incidenza dei tumori cerebrali in adulti e bambini.
D’altro canto, a fronte dell’aumento di sorgenti di RF in ambienti esterni e indoor - legato alla diffusione del WiFi e di micro-celle per telefonia cellulare e accesso a internet - gli studi di misura, sia quelli effettuati con rilevatori fissi in banda stretta, sia quelli più recenti basati su esposimetri personali, indicano che i livelli di esposizione sono largamente inferiori (anche di 4 ordini di grandezza) agli standard internazionali attualmente in vigore. A questo proposito, ritengo importante continuare a monitorare le intensità dei segnali a RF in relazione a sorgenti fisse nell’ambiente generale e credo che sarebbe molto utile effettuare anche nel nostro paese un’ampia indagine di misura dei livelli di esposizione personale a RF, sulla sua variabilità (interindividuale, temporale e spaziale) e sul contributo relativo di varie sorgenti all’esposizione personale complessiva.
Rispetto alle conoscenze consolidate, quali ulteriori evidenze ci si può attendere dagli studi in corso?
A gennaio di quest’anno è stato formalmente avviato il progetto GERoNiMO ( http://www.crealradiation.com/index.php/geronimo-home). Si tratta di uno studio estremamente ambizioso in termini di obiettivi e di risorse umane ed economiche mobilitate. Si propone di studiare, attraverso studi epidemiologici e su sistemi sperimentali, gli effetti sulla salute dei campi a RF e IF emessi da diverse sorgenti e dispositivi, e di utilizzare i risultati di tali indagini per analisi formali di risk assessment e risk management. I work-packages prettamente epidemiologici sono due: (1) una serie di coorti prospettiche di bambini europei arruolati alla nascita, dei quali si punta a ricostruire l’esposizione pre- e post-natale a diversi agenti ambientali oltre che a campi elettromagnetici, per studiarne l’impatto sulle caratteristiche alla nascita e sullo sviluppo neurologico nell’infanzia e nell’adolescenza; (2) un’estensione temporale e di obiettivi dello studio internazionale Mobi-kids, finalizzata a valutare l’associazione tra tumori cerebrali infantili ed esposizione a campi RF, IF e ELF.
Se GERoNiMO riuscirà a raggiungere tutti i suoi obiettivi (dato l’alto profilo del gruppo di ricerca, certamente ci riuscirà), darà un contributo notevole alle conoscenze scientifiche sui rapporti tra CEM e salute.
Per quanto riguarda il bioelettromagnetismo sono stati pubblicati una grande quantità di lavori. Che cosa è stato scoperto e cosa resta ancora da scoprire? Su cosa dovrebbe concentrarsi la ricerca in futuro?
Oltre a quanto abbiamo discusso in precedenza, negli ultimi decenni la ricerca nel settore del bioelettromagnetismo ha permesso di escludere con ragionevole certezza che esista una “ipersensibilità ai campi elettromagnetici”; numerosi studi di provocazione in doppio cieco - con esposizioni controllate a campi ELF e RF – hanno dimostrato che le persone che soffrono di “intolleranza idiopatica ambientale attribuita ai campi elettromagnetici” (IEI-EMF, secondo la terminologia introdotta dall’OMS) non sono in grado di riconoscere la presenza di un segnale a RF o di un campo magnetico più di quanto non possa avvenire per caso, e che l’insorgenza di sintomi negli esperimenti non è scatenata dall’esposizione. É stato inoltre accertato, in diversi studi, un chiaro effetto nocebo: i sintomi si manifestano in relazione all’idea di essere esposti. La prevalenza di persone che soffrono di IEI-EMF sembra variabile su base geografica, ma in alcune indagini sono state stimate frequenze anche del 13%. La condizione può essere estremamente invalidante e, in quanto tale, è un problema di sanità pubblica. Credo che il problema vada affrontato da due punti di vista: da un lato bisogna valutare l’efficacia di diversi interventi e approcci terapeutici, dall’altro occorre sviluppare azioni mirate al contenimento e alla prevenzione del fenomeno. In quest’ultima prospettiva, penso siano fondamentali campagne di comunicazione modulate su particolari destinatari, in primo luogo i media. A supporto di questa idea posso citare articoli recenti che individuano nei quotidiani e in alcuni reportage televisivi canali non solo di disinformazione sistematica, ma addirittura fattori in grado di aumentare la prevalenza della cosiddetta “ipersensibilità”. Anche i medici di base rappresentano un importante target per interventi di comunicazione delle evidenze scientifiche sui rischi da campi elettromagnetici.
Gli studi sulla percezione e comunicazione del rischio, più in generale, sono considerati priorità di ricerca dall’OMS nella sua Agenda per i campi RF del 2010.
Relativamente ad effetti sulla salute diversi da quelli che abbiamo considerato finora, credo che sia rilevante chiarire, mediante studi epidemiologici e sperimentali, se le esposizioni a campi ELF e RF abbiano un ruolo nell’insorgenza di malattie neurodegenerative.
Infine, per quanto riguarda range di frequenza diversi da ELF e RF e sorgenti di esposizione diverse da quelle già discusse, ritengo siano di grande interesse e attualità studi epidemiologici sui possibili rischi per la salute eventualmente associati alle esposizioni complesse sperimentate dal personale sanitario addetto alla risonanza magnetica nucleare (MRI) e su eventuali effetti riproduttivi negativi tra le lavoratrici nel settore del commercio esposte a campi a frequenza intermedia (IF), come suggerito nel recente rapporto SCENIHR.
Susanna Lagorio è Primo Ricercatore presso il Centro Nazionale di Epidemiologia – Reparto Epidemiologia dei Tumori dell' Istituto Superiore di Sanità Ha progettato e diretto indagini epidemiologiche sul rischio cancerogeno associato a diverse esposizioni ambientali, con particolare interesse per gli effetti sulla salute dei campi elettromagnetici (responsabile scientifico del contributo italiano agli studi internazionali INTERPHONE e TRANSEXPO), benzene ed altri inquinanti atmosferici urbani.
Per quanto concerne la presentazione dei risultati delle ricerche, è attenta sia alla diffusione attraverso i canali propri della comunità scientifica, sia alle attività di divulgazione.
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