Genotossicità dei campi a bassa frequenza


L'interazione tra campi elettromagnetici a bassa frequenza e alterazioni a livello genetico, sia a carico delle cellule germinali che di quelle somatiche è stata per lungo tempo oggetto di studio da parte di molti ricercatori.

I risultati riportati dalla letteratura scientifica si fondano perlopiù su esperimenti condotti in vitro e in vivo, nei quali sono state utilizzate diverse tipologie cellulari, incluse cellule umane, e differenti specie animali. I risultati riportati da questi studi non solo non sono univoci, ma in alcuni casi appaiono addirittura contraddittori e lungi dall'essere conclusivi. Ciò può essere attribuito alle condizioni sperimentali non sempre confrontabili quali, ad esempio, i parametri di esposizione (frequenza, modulazione, tempo di esposizione, SAR, temperatura ambientale), le differenze tra i sistemi biologici oggetto di studio e le diverse finalità investigative.

 

I test di genotossicità sono caratterizzati da un elevato livello di complessità, dal momento che una singola indagine spesso non è in grado da sola di rilevare tutti i potenziali effetti genotossici di un agente. Questo aumenta la difficoltà nel momento in cui si desidera procedere alla replica di un esperimento.

 

Una prima linea di indagini è stata portata avanti allo scopo di verificare un eventuale effetto genotossico dei soli campi ELF; esperimenti condotti su cellule del sangue umano esposte a campi magnetici a 50 Hz per 2 e 48 ore non hanno riscontrato alcun danno a carico della catena di DNA né alcuna alterazione nella proliferazione dei linfociti.

Di contro, altre indagini condotte utilizzando fibroblasti umani hanno riscontrato che, mentre l'esposizione continua a campi magnetici di 50 Hz non determinava alcun effetto a carico della catena di DNA, l'esposizione intermittente allo stesso campo magnetico nell'arco di 24 ore era invece responsabile dell'induzione di rotture sia a singolo che a doppio filamento della catena del DNA. Il livello più elevato di danno è stato riscontrato quando una esposizione della durata di 5 minuti veniva intervallata con un tempo morto di 10 minuti; nessun danno è stato osservato se la durata del tempo morto veniva protratta oltre i 20 minuti.

In studi successivi è stato inoltre osservato che il danno maggiore si verificava a 15-19 ore dall'esposizione e che le cellule dei donatori più anziani erano leggermente più soggette a rotture del DNA rispetto a quelle dei donatori più giovani. Raggiunto il picco, l'effetto andava esaurendosi nelle ore successive, scomparendo quasi completamente entro le 24 ore.

Altre ricerche ancora sono state condotte utilizzando un sistema batterico di E. coli allo scopo di valutare gli effetti della esposizione, sia continua che intermittente, a campi magnetici di frequenza 50 Hz su riarrangiamenti genetici, proliferazione e vitalità cellulare.

Non sono stati osservati effetti sulla proliferazione cellulare, valutata in termini di numero, area, diametro e perimetro delle colonie, è stata invece osservata una diminuzione dei riarrangiamenti genetici e un aumento della vitalità cellulare per esposizione continua, mentre l'esposizione pulsata, in questo caso ad onda quadra, ha causato una diminuzione del 40% della vitalità cellulare.

 

Oltre alle indagini incentrate sugli effetti dei soli campi ELF, altri studi in vitro sono stati portati avanti esponendo le cellule a campi a bassa frequenza in combinazione con agenti cancerogeni noti, allo scopo di valutare un eventuale effetto di promozione della genotossicità da parte dei campi ELF. In particolare, le cellule, dopo l'esposizione al campo magnetico, sono state successivamente trattate con agenti chimici e fisici tra cui raggi X, raggi UV, N-metylnitrosurea, e perossido di idrogeno.

In linea generale, in queste indagini è stato osservato che la presenza del campo magnetico non causava amplificazione nè effetti aggiuntivi al danno iniziale causato dagli agenti cancerogeni; non è stato quindi evidenziato alcun effetto di promozione della genotossicità da parte dei campi a bassa frequenza.

 

Oltre alle indagini cellulari sono stati effettuati anche studi in vivo, prevalentemente condotti in laboratorio utilizzando specifiche linee di ratti; uno dei principali vantaggi delle indagini in vivo è che sono in grado di fornire informazioni sull'interazione diretta tra i campi a radiofrequenza e i sistemi viventi, tenendo conto anche dei parametri fisiologici che non possono ovviamente essere considerati negli studi in vitro, tra cui le risposte immunitarie e i cambiamenti a livello di sistema cardiovascolare e comportamentale.

 

Alcune di queste indagini hanno riportato rotture a carico della catena del DNA di cellule cerebrali di ratto in seguito all'esposizione a campi magnetici di intensità pari a 10 µT per 24 e 48 ore. Questo effetto è stato inibito in seguito al trattamento con sostanze chimiche (radical scavenger) specifiche in grado di rimuovere prodotti di reazione nocivi o con chelanti del ferro; ciò ha suggerito un coinvolgimento dei radicali liberi e del ferro nel meccanismo d'azione dei campi magnetici.

 

Un altro gruppo invece non ha evidenziato alcun effetto di danno al DNA in cellule cerebrali di ratto a due e cinque ore dalla esposizione a campi di intensità 0.5 mT, danno che invece è stato osservato a 14 giorni dalla esposizione. Gli esperimenti in oggetto sono però caratterizzati da dosimetria incerta e probabilmente non corretta valutazione dei parametri ambientali.

Altri studi su roditori non hanno messo in evidenza alcun effetto in seguito ad esposizione cronica.

 

Conclusioni


In linea generale, gli studi in vitro volti a valutare gli effetti dei campi a bassa frequenza sulle cellule non hanno messo in evidenza alterazioni a livello genetico che possano essere imputabili direttamente all'esposizione ai campi magnetici al disotto dei 50 mT.

Alcuni gruppi hanno riportato un aumento nelle rotture a carico della catena del DNA in cellule cerebrali di ratto in seguito ad esposizione in vivo a campi magnetici ELF; altri gruppi però, utilizzando altri modelli non hanno riscontrato l'effetto atteso. I risultati quindi sono non conclusivi.

Riguardo alla possibilità che l'esposizione ai campi ELF determini effetti riconducibili all'insorgenza di tumori, non ci sono studi che indichino un effetto cancerogenico dei campi a bassa frequenza somministrati come unico agente, per quanto riguarda invece la possibilità di una azione in sinergia con altri cancerogeni noti, l'evidenza è inadeguata.

In definitiva, gli studi portati avanti, non hanno fornito evidenze sufficienti, sia in un senso che nell'altro, tali da indurre lo IARC a modificare la classificazione dei campi magnetici ELF come possibile cancerogeno per l'uomo (gruppo 2B). Si ricorda che tale classificazione non è basata sugli studi riguardanti gli effetti genotossici ma su una debole associazione tra esposizione ed insorgenza di leucemia linfoide e mieloide nei bambini.

 

Bibliografia

 

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Glossario


Comet assay: tecnica che permette di individuare un danno indotto al DNA: i frammenti di DNA prodotti dall'insulto appaiono come la coda di una "cometa" la cui testa è rappresentata dal nucleo della cellula. La lunghezza della coda è una funzione del danno indotto.

 

Test dei micronuclei: test di mutagenesi quantitativo che indica la presenza di un danno causato da un agente mutagene, senza però individuare il cromosoma coinvolto.Consiste nel prelevare, da un organismo sottoposto all'agente mutageno, cellule durante la fase mitotica, ed osservarle al microscopio dopo aver effettuato una colorazione differenziale che ne metta in evidenza il materiale genetico. In caso di mutazioni risulteranno visibili oltre al nucleo, frammenti di DNA, non incorporati, sparsi per il citoplasma definiti micronuclei.

 

Perossido di idrogeno: formula chimica H2O2 altrimenti nota come acqua ossigenata. Può agire da ossidante o da riducente, viene utilizzata come disinfettante e come sbiancante. Fa parte delle specie reattive dell'ossigeno (ROS).

test per le aberrazioni cromosomiche: indagini atte a valutare il danno a carico della catena del DNA che si manifesta attraverso alterazioni strutturali del cromosoma quali rotture, riarrangiamenti, delezioni, duplicazioni, inversioni. I test classici si basano sulla analisi citogenetica, effettuata al microscopio ottico, dei cromosomi in metafase.

 

Raggi UV: Radiazioni non ionizzanti aventi frequenza compresa tra 750 THz e 75000 THz e lunghezza d'onda compresa tra 400 e 4 nm (nanometro =10-9m). La radiazione ultravioletta (UV) presenta la proprietà di impressionare le lastre fotografiche inducendo una reazione fotochimica e anche di rendere fluorescenti alcuni corpi. Questo accade quando determinate sostanze riescono ad emettere delle radiazioni (radiazione di fluorescenza) a frequenze più basse di quella stimolante (UV appunto). Inoltre gli UV possono anche indurre reazioni fotochimiche nelle cellule, causando molti effetti biologici, alcuni riguardanti la struttura del DNA. Per questa ragione gli UV possono provocare il cancro alla pelle (melanoma). Fortunatamente queste radiazioni non ionizzanti riescono a penetrare solamente per poche centinaia di nm nella pelle.

 

Raggi X: Radiazioni elettromagnetiche ionizzanti a frequenza elevatissima, superiore a quella della radiazione ultravioletta, e con energia fotonica così elevata (anche più di 103 eV) tale da provocare la ionizzazione degli atomi del materiale irradiato. Hanno lunghezze d'onda dello stesso ordine di grandezza delle distanze fra gli atomi nei solidi. I raggi X sono prodotti dall'urto di elettroni molto veloci con un bersaglio materiale (solitamente un metallo pesante). Sono delle radiazioni penetranti e non ci sono dei corpi che, attraversati, riescono ad assorbirle totalmente. Questo fatto giustifica il loro largo impiego in radioscopia e in radiografia. Come i raggi gamma anche i raggi X possono essere pericolosi per le cellule viventi, in particolare possono causare delle mutazioni, sia dirette, rompendo dei legami chimici, sia indirette, inducendo radicali liberi.