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Effetti genotossici dei campi a radiofrequenza


L'interazione tra campi elettromagnetici a radiofrequenza e alterazioni a livello genetico, sia a carico delle cellule germinali che di quelle somatiche è stata per lungo tempo oggetto di studio da parte di molti ricercatori.

I risultati riportati dalla letteratura scientifica si fondano perlopiù su esperimenti condotti in vitro e in vivo, nei quali sono state utilizzate diverse tipologie cellulari, incluse cellule umane, e differenti specie animali. I risultati riportati da questi studi non solo non sono univoci, ma in alcuni casi appaiono addirittura contraddittori e lungi dall'essere conclusivi. Ciò può essere attribuito alle condizioni sperimentali non sempre confrontabili quali, ad esempio, i parametri di esposizione (frequenza, modulazione, tempo di esposizione, SAR, temperatura ambientale), le differenze tra i sistemi biologici oggetto di studio e le diverse finalità investigative.


I test di genotossicità sono caratterizzati da un elevato livello di complessità, dal momento che una singola indagine spesso non è in grado da sola di rilevare tutti i potenziali effetti genotossici di un agente. Questo aumenta la difficoltà nel momento in cui si desidera procedere alla replica di un esperimento.


Tra le varie tecniche attualmente utilizzate, le più conosciute e collaudate sono il test dei micronuclei, il comet assay e il test per le aberrazioni cromosomiche.


Nell'ambito delle indagini in vitro, iniziate a partire dagli anni '90, i primi studi condotti hanno rilevato l'assenza di effetti genotossici (aberrazioni cromosomiche) e mutageni (frequenza di mutazione) diretti, imputabili all'esposizione a campi elettromagnetici pulsati a frequenza pari a 2.45 GHz con livelli di SAR molto elevati, circa 40 W/kg.


Da parte del mondo scientifico era sorta anche la preoccupazione che l'esposizione ai campi a radiofrequenza potesse in qualche modo interagire, aumentandone l'effetto, con agenti chimici o radiazioni ionizzanti. In linea teorica il campo a radiofrequenza potrebbe infatti avere un effetto genotossico indiretto, influendo in qualche modo sulla riparazione del DNA in seguito agli effetti della esposizione ad agenti genotossici noti. Gli studi effettuati non si sono focalizzati sui meccanismi di riparazione del DNA, ma sui possibili effetti sinergici.

Studi effettuati su differenti tipologie di cellule, tra cui i linfociti umani e linee cellulari di ratto e murina geneticamente modificate per insorgenza di linfoma, non hanno messo in evidenza effetti sinergici nel momento in cui le esposizioni sono state condotte in presenza di sostanze chimiche quali la mitomicina-C, l'adriamicina e la proflavina.

È stato riscontrato che nel momento in cui l'esposizione al campo a radiofrequenza precedeva temporalmente il trattamento con l'agente mutageno, il danno genetico rilevato a volte era superiore rispetto a quello provocato dal solo trattamento con l'agente. L'ordine di esposizione, sembrerebbe quindi determinare la presenza o l'assenza di un effetto cooperativo; queste considerazioni necessitano però di ulteriori repliche.


Altri studi invece hanno riscontrato un aumento nella frequenza delle aberrazioni cromosomiche e nel numero di micronuclei presenti in linfociti umani esposti a campi con frequenza 2.45 GHz e SAR pari a 75 W/kg, mentre non sono stati osservati effetti con il test degli scambi intercromatidici.


Indagini più recenti sempre condotte su linfociti umani, effettuate utilizzando il test dei micronuclei e il comet assay, non hanno evidenziato effetti cellulari per esposizioni a campi di frequenza 1.95 GHz e SAR pari a 2.2 W/kg.


Altri studi relativi alla esposizione di linfociti e fibroblasti a campi tipici della telefonia UMTS hanno invece rilevato, nei fibroblasti ma non nei linfociti, danni a livello di DNA per tutti i valori di SAR utilizzati. Questi studi necessitano tuttavia di una ulteriore validazione dal momento che l'analisi dei dati ha subito diverse critiche a causa delle tecniche qualitative utilizzate nella valutazione dei frammenti di DNA.


Infine, un aumento nel numero di aberrazioni cromosomiche, sia strutturali, sia quantitative è stato riscontrato in linfociti periferici dopo 72 ore di esposizione a campi RF ad 800 MHz con livelli di SAR pari a 2.9 e 4.1 W/Kg.

In queste indagini è stato osservato che la tipologia di aberrazione è diversa al variare della coppia cromosomica presa in esame e del SAR; per i cromosomi 1 e 10 le aberrazioni, perlopiù aneuploidie, si verificano ad elevati livelli di SAR, mentre nelle coppie 11 e 17 l'effetto è riscontrabile a livelli di SAR inferiori.


Oltre alle indagini cellulari sono stati effettuati anche diversi studi in vivo, prevalentemente condotti in laboratorio utilizzando specifiche linee di ratti; uno dei principali vantaggi delle indagini in vivo è che sono in grado di fornire informazioni sull'interazione diretta tra i campi a radiofrequenza e i sistemi viventi, tenendo conto anche dei parametri fisiologici che non possono ovviamente essere considerati negli studi in vitro, tra cui le risposte immunitarie e i cambiamenti a livello di sistema cardiovascolare e comportamentale.

Negli ultimi 30 anni sono stati numerosi gli studi in vivo riguardanti un eventuale effetto genotossico imputabile all'esposizione a campi a radiofrequenza, per ragioni prevalentemente legate alla potenza statistica è stato utilizzato come organismo modello la Drosophila Melanogaster. Tutti i risultati ottenuti da questi studi hanno avuto un esito negativo; vanno però considerate le differenze interspecie, che non permettono una facile estrapolazione dei risultati dall'insetto all'uomo.


Per quanto riguarda gli studi sui mammiferi, la maggior parte di essi non ha osservato alcun danno diretto al DNA in seguito all'esposizione acuta o cronica a campi a radiofrequenza, in particolare nelle condizioni in cui le temperature rimanevano entro i limiti fisiologici.

Tuttavia, in alcune di queste indagini è stata riportata una associazione positiva tra esposizione a campi a radiofrequenza e danno al DNA; uno studio in particolare ha infatti evidenziato significative alterazioni nella lunghezza della catena del DNA di cellule cerebrali e germinali di ratto in seguito a esposizioni di 2 ore a 2.45 GHz, sia in onda continua (SAR di 1.2 W/kg) sia pulsata (SAR di 0.6 e 1.2 W/kg); tali alterazioni possono essere l'espressione di rotture a carico della catena.

Questa ipotesi è stata confermata da alcune indagini successive che hanno inoltre messo in evidenza che, in caso di onda pulsata il danno si esprimeva 4 ore dopo il termine dell'esposizione, mentre nel caso dell'onda continua il danno era rilevabile già subito dopo il trattamento.

Si ipotizza che questo comportamento possa essere dovuto sia ad un effetto diretto sul DNA del campo a radiofrequenza che, soprattutto, ad una alterazione a carico dei meccanismi di riparazione del DNA stesso.

Lo stesso gruppo di ricercatori ha inoltre dimostrato che, nelle condizioni sperimentali sopra descritte, le rotture dell'elica di DNA a seguito di una esposizione a 2.45 GHz erano meno frequenti nei ratti ai quali, subito prima e subito dopo l'esposizione, era stato iniettato l'oppioide antagonista naltrexone.

 

Conclusioni


La possibile associazione tra esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenza e genotossicità è stata oggetto di numerosi studi condotti sia su cellule sia su animali.


Se si esclude qualche eccezione, che non ha tuttavia ancora trovato una conferma definitiva, la maggior parte degli studi in vitro hanno portato alla conclusione che i campi a radiofrequenza non sono in grado di provocare reazioni genetiche di mutazione né di fungere da promotori di genotossicità per altri agenti chimici o fisici.

Tuttavia, a livelli di esposizione non termici, possono verificarsi effetti indiretti sulla trascrizione o replicazione dei geni. Sulla base di questo, la comunità scientifica non ha ancora tratto conclusioni definitive riguardo ad una eventuale genotossicità indiretta.


Per quanto riguarda gli studi in vivo su animali, sulla base delle ricerche sopra citate appare chiaro che non è possibile trarre valide conclusioni definitive circa la genotossicità dei campi elettromagnetici a radiofrequenza, in condizioni non termiche.

Di conseguenza si può affermare che allo stato attuale non sono stati identificati effetti sanitari dannosi, tuttavia si ritiene opportuno procedere con ulteriori ricerche.

 

Bibliografia


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Glossario


Adriamicina: antibiotico ad azione antitumorale con applicazioni cliniche nel carcinoma mammario, dell'endometrio, delle ovaie, dei testicoli, della tiroide, dei polmoni e nel trattamento di alcuni sarcomi tra cui il neuroblastoma

 

Aneuploidia: condizione che si verifica quando il numero di cromosomi risulta essere in eccesso o in difetto rispetto alla normale condizione.

 

Cellule germinali o gameti: cellule specifiche destinate alla riproduzione. Sono caratterizzate da un corredo cromosomico aploide, cioè dimezzato. Al momento della fecondazione i corredi dei due gameti vengono messi in comune a ricostituire un corredo diploide che apparterrà al nuovo individuo.

 

Cellule somatiche: cellule che costituiscono il corpo (o soma) di un organismo. Aggregati di cellule somatiche formano i vari tessuti che, in organismi complessi, vanno a costituire organi e a loro volta apparati.

 

Comet assay: tecnica che permette di individuare un danno indotto al DNA: i frammenti di DNA prodotti dall'insulto appaiono come la coda di una "cometa" la cui testa è rappresentata dal nucleo della cellula. La lunghezza della coda è una funzione del danno indotto.

 

Mitomicina-C: agente alchilante utilizzato nella terapia di diversi tipi di neoplasie; agisce in particolare inibendo la divisione delle cellule tumorali attraverso la formazione di un legame con il loro DNA che ne determina la frammentazione.

 

Naltrexone: antagonista dei recettori oppiacei utilizzato nel trattamento della dipendenza da oppioidi.

 

Proflavina: agente intercalante avente capacità mutagene. La proflavina è in grado di assumere la forma chimica di due basi azotate appaiate, come quelle presenti nel DNA e attraverso forze di interazione idrofobiche può intercalarsi tra una coppia di basi e quella successiva; in questo modo, la molecola può rimanere intercalata nel DNA fino al successivo ciclo di replicazione, inducendo cosi mutazioni nell'acido nucleico.

 

Test per le aberrazioni cromosomiche: indagini atte a valutare il danno a carico della catena del DNA che si manifesta attraverso alterazioni strutturali del cromosoma quali rotture, riarrangiamenti, delezioni, duplicazioni, inversioni. I test classici si basano sulla analisi citogenetica, effettuata al microscopio ottico, dei cromosomi in metafase.

 

Test dei micronuclei: test di mutagenesi quantitativo che indica la presenza di un danno causato da un agente mutagene, senza però individuare il cromosoma coinvolto.Consiste nel prelevare, da un organismo sottoposto all'agente mutageno, cellule durante la fase mitotica, ed osservarle al microscopio dopo aver effettuato una colorazione differenziale che ne metta in evidenza il materiale genetico. In caso di mutazioni risulteranno visibili oltre al nucleo, frammenti di DNA, non incorporati, sparsi per il citoplasma definiti micronuclei.

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